Il progetto si chiama 7 Days Mission Everest e lo scorso 16 maggio ha visto quattro alpinisti, tutti ex militari, partire da Londra per raggiungere la vetta del Monte Everest a 8848 mslm e fare rientro nella capitale inglese il 23 maggio – appena una settimana più tardi, per l’appunto.
Come è stato possibile? No, nessun viaggio spazio-temporale: come riporta Pietro Lacasella di L’AltraMontagna, infatti, la spedizione ha raggiunto il campo base Everest impiegando diversi voli aerei ed elicotteri. Dopodiché, la scalata alla cima più alta del mondo è stata completata con l’ausilio del gas xenon (detto anche epo, in gergo alpinistico) – che stimola la produzione di un ormone che aumenta i globuli rossi, migliorando dunque la capacità del corpo umano di trasportare ossigeno: un vantaggio enorme in ambiente di alta quota.
Detto che i quattro alpinisti hanno effettivamente raggiunto la cima dell’Everest nei tempi previsti (impresa in ogni caso non indifferente), la domanda che in molti si pongono, e non solo nell’ambiente dell’alpinismo, è: perché mortificare l’aspetto più romantico e affascinante di una tale impresa in nome di una spedizione che potremmo definire “mordi e fuggi”?
Come giustamente fa notare Lacasella nella sua analisi del fatto, eventi come questo possono tranquillamente portarci a parlare di “morte dell’alpinismo” o, estendendo ulteriormente questo concetto, persino di “morte del viaggio”.
Da Londra all’Everest in 7 giorni: l’opinione
Personalmente, da viaggiatore incallito e da amante del viaggio lento quale sono, non posso che condividere una certa preoccupazione di fronte alla tendenza sempre più incontrollata (e incontrollabile) da parte dei turisti (perché di viaggiatori, in questi casi, di certo non si può parlare) di volere tutto e subito, pretendendo di collezionare bandierine, timbrini sul passaporto e foto da postare sui social senza alcun riguardo per il vero spirito del viaggio.
“Viaggiare significa abbandonarsi completamente alla curiosità. Significa fare un passo indietro, svuotare la mente da ogni pregiudizio e prepararsi ad accogliere qualcosa di totalmente nuovo“

Viaggiare significa abbandonarsi completamente alla curiosità. Significa fare un passo indietro, svuotare la mente da ogni pregiudizio e prepararsi ad accogliere qualcosa di totalmente nuovo: culture, usi, costumi, sapori ed esperienze. E tutto questo contribuisce a rendere unico e irripetibile ogni nostro singolo viaggio nel mondo. Ma la verità è che ciò richiede tempo – oltre che una certa attitudine mentale che, inevitabilmente, non tutti possiedono.
Forse è proprio questo, complice anche la facilità con cui oggi è possibile viaggiare low cost, che sta lentamente portando il “viaggio lento” a scomparire e ad essere sostituito da quella che potremmo definire una frenetica e spasmodica rincorsa alla prossima destinazione in voga su Instagram, da visitare il più rapidamente possibile e da consumare altrettanto velocemente.
Ma cosa resta, del viaggio, quando questo viene privato del suo fondamentale spirito di lentezza? Ciò che rimane è la parte meno entusiasmante dell’esperienza, quella destinata a svanire presto – anzi, prestissimo – diventando un ricordo confuso e insapore. Perché, di un viaggio, la componente indelebile è sempre quella legata alle emozioni, alle avventure e alle difficoltà che abbiamo vissuto e sperimentato.
Se dovessi privare i ricordi dei miei viaggi delle emozioni che mi ha dato attraversare i confini nazionali a piedi, entrare in contatto con la popolazione locale nei Paesi più poveri del mondo, perdermi nelle culture che mi hanno accolto a braccia aperte, e persino riuscire a cavarmela nelle situazioni di peggiore sconforto, posso garantire che resterebbe ben poco. Perché è proprio per questo genere di emozioni che viaggio, ed è per questo che amo farlo in modo lento.
Chi è Lukas Furtenbach, a capo della 7 Days Mission Everest
Tornando sulla recente spedizione “mordi e fuggi” da Londra all’Everest, coronamento di una società che non ha più rispetto per niente e per nessuno, ritengo che sia istruttivo citare anche le parole di Lukas Furtenbach, che questa “missione” (come egli stesso la definisce) l’ha organizzata e curata in ogni singolo aspetto.
“La nostra è stata una spedizione scientifica e medica, meticolosamente pianificata e realizzata per esplorare il futuro dell’alpinismo d’alta quota” ha chiarito Furtenbach secondo quanto riportato da montagna.tv. “Lo scopo della missione è sempre stato quello di migliorare la sicurezza in montagna per tutti, e non glorificare la velocità. L’impiego dello xenon è servito a dimostrare che con la tecnologia, la preparazione e l’etica giusta è possibile accelerare le ascensioni senza rischiare vite”.
Furtenbach, insomma, ci tiene a sottolineare che la sicurezza degli alpinisti non è mai stata messa in discussione e che il rispetto per la montagna non è mai mancato: “L’Everest non perdona le scorciatoie e punisce l’arroganza. Ogni nostro passo è stato calcolato e ogni rischio mitigato”. L’austriaco, titolare di un’agenzia di spedizioni alpinistiche, ha spiegato anche come siano stati previsti una pre-acclimatazione tramite simulazioni ad hoc, un monitoraggio continuo dei parametri vitali dei quattro alpinisti e – ovviamente – un team di sicurezza pronto a gestire ogni eventuale emergenza 24/7.
Il futuro del “Viaggio lento”
Sebbene non mi sia passato inosservato il tentativo di Furtenbach di dirottare le critiche e le polemiche che sono scaturite dalla spedizione verso le potenzialità che l’impiego del gas xenon potrebbe avere nell’ambiente alpinistico nel prossimo futuro, la domanda resta – e, se possibile, diventa ancora più perentoria: vogliamo davvero rinunciare alla vera essenza del viaggio nel nome di un’accessibilità sempre maggiore e di un turismo sempre più alla portata di tutti? E fino a dove siamo disposti a spingerci pur di raggiungere questo insensato obiettivo?
“Quelli come noi, amanti del viaggio più autentico, non possono che essere i custodi dell’immensa fortuna che è saper godere della spontaneità di ogni singola esperienza nel mondo“

Fatti alla mano, il progetto 7 Days Mission Everest è solo l’ultima di una serie di esperienze al limite che, inevitabilmente, hanno fatto discutere e hanno diviso l’opinione pubblica. Solamente poche settimane fa, la società spaziale Blue Origin (di proprietà di Jeff Bezos, il magnate di Amazon) ha fatto parlare di sé per aver portato nello spazio un gruppo di turisti spaziali (tra queste c’erano la moglie dell’imprenditore e la cantante Katy Perry).
Cose radicalmente diverse, direte voi, eppure i parallelismi che vedo con la missione che ha portato quattro alpinisti in cima all’Everest e ritorno in una sola settimana sono molteplici. In comune tra i due progetti ci sono sicuramente l’esclusività delle operazioni (sebbene con la promessa di renderle accessibili ai più nei prossimi decenni), la sfida aperta ad ambienti che esigono un profondo rispetto e la risonanza mediatica che hanno avuto. Il tutto giustificato da motivazioni e argomentazioni che si spingono pericolosamente in bilico tra il nobile desiderio di ricerca sulle nuove tecnologie, che puntano a far progredire la società, e un consumismo senza precedenti (che rischia invece di farla collassare).
Il dibattito, insomma, è aperto. Ma notando come il turismo, al giorno d’oggi, stia cavalcando senza remore verso esperienze votate al lusso e alla superficialità, a discapito della componente più umana e genuina del viaggio, temo davvero che la direzione intrapresa non possa che condurre a un unico risultato. Il “viaggio lento”, quello che amiamo noi, forse ha davvero il tempo contato. E quelli come noi, amanti del viaggio più autentico, non possono che essere i custodi dell’immensa fortuna che è saper godere della spontaneità di ogni singola esperienza nel mondo.
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